
Una poesia/ La poesia di Vittorio Sereni
Attraverso “una poesia” contattare “la poesia” in Vittorio Sereni. Un tentativo di entrare verticalmente, nello spazio circoscritto di un breve articolo, nel complesso mondo poetico di questo autore attraverso la lettura di un suo brano straordinario. Il brano in questione è Autostrada della Cisa, tratto dalla sua ultima raccolta, Stella variabile (1980). Una scrittura, quella di Sereni, nella quale l’autore «riesce a stringere assieme, spesso con effetti dissonanti, le grandi questioni della metafisica, i mutamenti della storia, la narrazione della vita» [1].
Ecco il brano.
Tempo dieci anni, nemmeno
prima che rimuoia in me mio padre
(con malagrazia fu calato giù
e un banco di nebbia ci divise per sempre).
Oggi a un chilometro dal passo
una capelluta scarmigliata erinni
agita un cencio dal ciglio di un dirupo,
spegne un giorno già spento, e addio.
Sappi – disse ieri lasciandomi qualcuno –
sappilo che non finisce qui,
di momento in momento credici a quell’altra vita,
di costa in costa aspettala e verrà
come di là dal valico un ritorno d’estate.
Parla così la recidiva speranza, morde
in un’anguria la polpa dell’estate,
vede laggiù quegli alberi perpetuare
ognuno in sé la sua ninfa
e dietro la raggera degli echi e dei miraggi
nella piana assetata il palpito di un lago
fare di Mantova una Tenochtitlàn.
Di tunnel in tunnel di abbagliamento in cecità
tendo una mano. Mi ritorna vuota.
Allungo un braccio. Stringo una spalla d’aria.
Ancora non lo sai
– sibila nel frastuono delle volte
la sibilla, quella
che sempre più ha voglia di morire –
non lo sospetti ancora
che di tutti i colori il più forte
il più indelebile
è il colore del vuoto?
(V. Sereni)
La prima strofa ci introduce improvvisamente, brutalmente, attraverso un meccanismo di choc, al tema del tempo, della vecchiaia, della morte. Il poeta si proietta in un tempo futuro, una decade più in là, quando avrà l’età in cui suo padre è morto e ne rievoca la morte con due versi complementari: lo strappo fisico, il calare alla terra del corpo, e quello psichico, il non vedersi più, l’indefinito della nebbia come dimensione di un ricordo inafferrabile e di una impossibilità di comprensione. Questa prima strofa è puro pensiero, un atto di ricordo e di riflessione, ma la seconda ci porta nel luogo fisico dell’autostrada che incornicia questo vagare mentale. Probabilmente una contadina che richiama l’attenzione per vendere prodotti agitando un panno viene trasfigurata in erinni, figura che evoca la follia, la disperazione, l’incontenibile. Uso modernissimo del riferimento mitologico, come in Rimbaud: «Erinni nuove, davanti alla mia villetta che è la mia patria e tutto il mio cuore» [2]. La visione del gesto della donna/erinni al limite del giorno è il segno di un elemento di irriducibilità che spezza qualunque possibilità di tramonto arcadico. Il giorno è finito prima di finire: porta in sé già il codice della sua mortalità, come l’uomo. Il reale sbarra qualunque visione pacificante, emotiva. Il brano a questo punto entra nel tema della speranza, una speranza recidiva, che torna sempre, come torna sempre il reale dell’esserci. Speranza che certa narrazione dell’Altro ci consegna come visione di un possibile ultraterreno ma che Sereni disvela come energia libidica, come slancio pulsionale che porta a superare i limiti imposti dal reale, a fare di Mantova una Tenochtitlàn. Il poeta si confronta con l’oscillazione esistenziale di urtare contro lo spigolo del reale, affacciarsi sul non senso, ma al contempo sentire la spinta a vivere, comunque. Una volontà schopenhaueriana che non ha ragione alcuna, ma si articola in pura spinta vitalistica, con il fervore della linfa negli alberi, al di sopra dei limiti e della irriducibilità della situazione esistenziale: muovere sempre in avanti, mordere il frutto della vita, fantasticare una città incantata e fantasmagorica in luogo di una città topograficamente accertata, inerte, già nota. L’oscillazione però, e questa è la forza principale del brano, rimane irrisolta, viene attraversata con un certo distacco, e sfuma in una sorta di straniamento aporetico (che è il vero nucleo della poesia) reso meravigliosamente dall’effetto buio/luce indotto dalle gallerie attraversate in autostrada. Questa intermittenza abbagliamento/cecità dà, in perfetto correlativo oggettivo, il senso di compresenza vita/morte, di come la morte stessa non sia soltanto posta alla fine della vita ma sia sartrianamente presente nella vita, sia della vita. Nell’intermittenza delle gallerie il poeta ci fa contattare un senso di solitudine radicale, di mancanza, di assenza. Certamente assenza del padre scomparso, ormai ombra inafferrabile in questo Ade autostradale, ma anche assenza, ancor più radicale, del poeta stesso, che si percepisce come sfuggente a sé medesimo, come straniato riflesso quaggiù di quelle ombre al di là, già preso da quel vuoto (cfr. Baudelaire «ancor più che la vita, la morte spesso ci tiene, con fili sottili») [3] . Una temperie di inconsistenza corporea in cui la vita che è già fantasma, irriducibile a ogni presa tattile e della parola. La lirica è di grande potenza nel farci percepire quello sentire sottile. L’ultima strofa tocca il picco di mistero e di raffinatezza espressiva. Compare una sibilla di eliotiana memoria [4]. Nell’esergo de La terra desolata, Eliot cita Petronio che ci presenta la musa cumana ridotta a una minuscola creatura imprigionata in un’ampolla, derisa dai ragazzi che le chiedono «Cosa vuoi?» e lei risponde «Morire». Da cui questa sibilla sereniana che sempre più ha voglia di morire ma che, pur nella sua significazione di rassegnazione esistenziale, di desiderio di dissolvimento, è portatrice del senso più autentico del poetare come porsi in rapporto con questo enigma radicale dell’esserci. Ci consegna, proprio come una sentenza sibillina scritta «su le foglie disperse al vento del fato» [5], questo colore del vuoto, espressione ossimorica e meravigliosa, in qualche modo anche sinestetica, che ci trasporta sul piano dell’impossibile della poesia e della vita. Ciò che siamo ed esprimiamo di più autentico, il nostro più vivido e indelebile colore, è in relazione a un vuoto, a un nulla da cui siamo presi. Con quel vuoto, con quel nulla, fragilmente, si articola.
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[1] E. Testa, Dopo la lirica, Poeti italiani 1960-2000 (Einaudi, 2005) p. 8.
[2] A. Rimbaud, Città, da Illuminazioni (1886).
[3] C. Baudelaire, Semper eadem, da I fiori del male (1861).
[4]. Il riferimento a Eliot e altre preziose indicazioni sul testo sono tratte da R. Ceglie, Sereni: l’esistenza come movimento tra recuperi e proiezioni (fonte: site.unibo.it).
[5] G. D’Annunzio, Notturno (1916)
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