Antinomia del poetico
Stefano Negri, India

Antinomia del poetico

diLucio Macchia

La poesia vive in una dimensione antinomica: è un dominio di contraddizione piuttosto che di linearità, di mistero piuttosto che di chiarezza. L’antinomia che, probabilmente, la caratterizza in modo più marcato, è quella tra sovvertimento del linguaggio e intento comunicativo. La convivenza di queste due istanze rende intrinsecamente irrisolvibile il gesto poetico che, pure, non può che collocarsi in tale contraddizione. Cerchiamo di delineare questi due aspetti. Certamente l’atto poetico sovverte il tessuto linguistico. Rispecchia, per dirla con Wittgenstein, la tendenza umana ad «avventarsi contro i limiti del linguaggio»[i], per farne “forzatamente” strumento di espressione. Questo aspetto ha sempre caratterizzato la lirica, sin dalle origini, e si è radicalizzato nell’epoca moderna, fino ad estreme operazioni artistiche. Se torniamo indietro, fino alle produzioni dantesche e petrarchesche, troviamo un approccio linguistico basato sull’uso diffusivo delle figure retoriche, con l’intento, tecnicamente consapevole, di ottenere una vasta gamma di registri espressivi. Il linguaggio “corrente”, aderente alle esigenze pratiche di manipolazione della realtà, viene ridefinito per consentire l’espressione di stati psichici e di idee astratte, di un sentire non direttamente coglibile dalla parola, dalla frase ordinaria. In fondo la poesia si delinea già come “nemica della frase”, che viene sistematicamente violata e ridefinita, a partire dai significati dei lemmi che traslano e si scambiano tra loro (uso sistematico di metafora e metonimia) o tendono ad abdicare alla significazione a favore del loro ruolo come suoni e come evocazioni (allitterazione, onomatopea). Sullo stesso piano si colloca l’uso delle parole rare, inventate, fuse. Anche la struttura sintattica della frase e il suo ordinamento sono sottoposti ad inversioni e spostamenti (anastrofe, anacoluto). Il linguaggio viene “stirato”, deformato, manipolato, al fine di portarlo ad un livello espressivo superiore. Il barocco, amante dei giochi d’ingegno e di illusione, si compiace dei fantasiosi parossismi della manipolazione linguistica, come perfettamente visibile nell’uso spericolato della metafora[ii]. Ma è nell’età moderna che il sovvertimento si fa radicale. Il processo non è più razionalmente decodificabile come per i poeti antichi. Il codice perde la sua decifrabilità. Da Baudelaire in poi, l’intervento sul tessuto linguistico è spinto all’inverosimile sia che se ne distilli un’essenza rarefatta ai limiti del nulla, come nel gesto mallarmeano, sia che si proceda, come in Rimbaud, in modo “alogico”, con accostamenti e strutture discorsive totalmente distaccate dall’uso corrente. Nel procedere della poesia verso la contemporaneità, di avanguardia in avanguardia, si assiste ad un progressivo “oscuramento” della trama poetica, che giunge, in talune tendenze, a divenire inaccessibile. A fronte di questo sovvertimento linguistico a complessità crescente, a questo progressivo chiudersi dell’accessibilità al discorso poetico, vi è l’istanza del comunicare. Parlare di “comunicazione” riferendosi alla lirica rischia di essere scandaloso già nel porsi. Eppure, la scrittura poetica ha inevitabilmente a che fare con un “Altro”. Si rivolge, seppur disperatamente e in una modalità non riconducibile in nessun modo ai mezzi di comunicazioni tradizionali, ad un “pubblico”. Viene pubblicata. Da qui nasce l’antinomia. Un’espressione che, calata nella singolarità più lacerata di un’esistenza, ha la pretesa di costruire un dire che non appartiene a nessuna narrazione corrente. E che pure, comunque, tende – assurdamente – a giungere all’Altro. La famosa prosa meta-poetica de “Il meridiano” di Paul Celan[iii], percorre traiettorie di ricerca in questa dimensione antinomica e ne esce a suo modo. Ma non è una modalità “leggera e piana”. Poiché l’antinomia è irrisolvibile: ogni poeta è costretto, come ha fatto Celan, a collocarsi in essa, ad operare la sua scrittura in tale contraddizione. Non può eluderla. Chi la elude, rinuncia alla complessità del coniugare ricerca poetica e capacità di giungere, per quanto precariamente, ad un “Altro”. Opera uno schiacciamento su una delle due istanze, precipitando in un approccio sostanzialmente unilaterale. Ad un estremo vi è la tentazione di radicalizzare l’oscurantismo, di rinunciare all’Altro, o ridurlo ad una ristrettissima cerchia di adepti o pari, come in certa avanguardia accademica, lontanissima, eburnea. Una poesia sempre soggetta al rischio di una auto-referenzialità intellettualistica, una poesia “saturnina” in senso hillmaniano[iv], dominata da uno spirito “senex” freddamente accademico. Deprivata della viva ricerca e dell’energia espressiva del “puer”. Il rischio maggiore è proprio il distacco dal senso umano del dire. Ungaretti, ottantenne, ha detto: «non so che poeta io sia stato in tutti questi anni. Ma so di essere stato un uomo […]». All’altro estremo, la tendenza complementare: quella di aderire a modelli di comunicazione adattati alla cultura dominante, e quindi di produrre una lirica che non è altro che una veicolazione di messaggi, rinunciando alla ricerca, all’uso sofisticato del linguaggio, e inclinando, quindi, verso una parola meramente didascalica. Pensieri in bella forma, sentimentalismi, aneddotica di saggezza, persino opinioni e impegno politico. Il rischio, qui, è quello di cessare d’essere discorso poetico e confondersi con il diffuso rumore degli infiniti discorsi della tecnica, riducendosi alla loro versione imbellettata. Entrambe queste modalità di uscita dall’antinomia sono, in definitiva, vie che rischiano di condurre alla banalizzazione, sottraendo alla poesia il suo intento specifico di contatto con l’Essere[v] (in senso heideggeriano). Sottraendo, così, la sua “utilità non utile”, il motivo per cui, in definitiva, la leggiamo, e che non risiede né nella passione per una elucubrazione puramente intellettuale, né per l’ascolto di contenuti in bella forma. Il poetico trova in suo senso nell’ascolto di ciò che noi siamo al di là delle codifiche reificanti dei discorsi della cultura dominante. Per tentare questa strada, per produrre una lirica che ci corrisponda umanamente, dobbiamo necessariamente trattenerci nell’antinomia, accettarne l’intrinseca irriducibilità, rinunciare a ogni certezza. E – da lì – parlare.



[i] Wittgenstein, Conferenza sull’etica, tenuta a Cambridge nel 1929 (citato nell’articolo Dal nonsenso al gesto: Wittgenstein e il giudizio di valore di S. Oliva)

[ii] Si veda, a questo proposito, l’articolo La metafora nella lirica moderna

[iii] Si veda l’articolo Lungo il meridiano, in due parti

[iv] Ci si riferisce al testo Puer Aeternus di J. Hillman

[v] Si veda, a questo proposito, l’articolo La poesia come disvelamento


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