La rimozione del poetico
Salvatore Ruggiu - Luna Sa Pittada

La rimozione del poetico

diLucio Macchia

Entro in una delle più grandi librerie di Roma. Ampia, multipiano. Una cavità ammantata di libri su tutti i lati. Cerco la sezione di poesia. Non è dove ricordavo. Probabilmente è stata spostata, o forse ricordo male, non importa. La cerco nell’ampio piano terra, e la trovo con molta difficoltà. Una piccola porzione di una delle pareti del grande ambiente. Mallarmé e la sua perfezione formale sono al livello del pavimento, spinti a terra dalla casualità posizionale dell’ordine alfabetico: devo rannicchiarmi per raggiungerlo. La poesia è nascosta, è rimossa, nel clamore immenso della parola. In quello spazio “scenico” della libreria non è un concetto astratto, ma fisicamente tangibile. I libri parlano d’altro: questo è evidente. E anche noto a tutti: non ho scoperto nulla di nuovo. Ma qual è la fenomenologia di questo processo di rimozione del poetico? La poesia è “ostica”, richiede uno sforzo notevole di interpretazione del testo, ma vi è un intero piano dedicato alla saggistica che mi porta a pensare che non sia una questione di difficoltà intellettuale. Piuttosto, tutti questi libri che rivestono le ampie pareti, intorno all’angolino poetico, danno “qualcosa”: una storia (i romanzi, i racconti), un’idea (i saggi), una prassi (i manuali). La poesia non dà niente. Niente che faccia parte del mondo che ci ha abituati alla quantificazione, all’ottenere dall’esperienza un ritorno misurabile, in qualche modo sempre “concreto”. La lettura della poesia, come sanno i frequentatori di questo genere, è un’esperienza irriferibile, intima, spesso contraddittoria, poiché il poetico non è il regno delle cose mondane, su cui i parametri della tecnica (il produrre, l’accumulare) hanno inscritto le loro categorie. Non sto naturalmente sminuendo la prosa o la saggistica. Il poetico – tra l’altro – è presente anche in queste opere. In certa prosa (penso, per esempio, alla Woolf) in modo travolgente. La differenza è che vi è inserito in strutture formali più “oggettive”, più “riferibili” di quanto non sia nella poesia “pura”. E uso questo aggettivo con timore, essendo difficilissimo definire in cosa consista tale purezza. A volte leggo poesie che non sono altro che pensieri ben scritti (impegno sociale, psicologia ecc.) e che quindi portano al lettore lo stesso piacere di concretezza insito nel parlato delle storie, dei saggi, dei manuali. Chiaramente incontrano più facilmente il favore del pubblico. Ma la poesia, pur frequentando il pensiero, è qualcos’altro. Non coincide con il pensiero. Non produce un quid collezionabile. Fa appello ad una dimensione al limite dell’esperienza umana. Perciò viene rimossa. Insieme al nostro sentire più autentico e ambivalente. Insieme alla verità di noi stessi, di ciò che davvero siamo. L’angolo della libreria è quello della nostra mente, dove segreghiamo un parlare analogico, complesso, non collezionabile, che non fornisce la struttura razionale a supporto dei discorsi insiti nelle storie e nei dibattiti di idee. È collocata in un tempo differente. Non quello orizzontale lungo il quale si svolgono gli accadimenti, si snodano i ragionamenti, si applicano le tecniche. Ha la pretesa assurda di un tempo verticale, in cui l’istante fiorisce illimitato. Dove, per dirla con Pound, si rinuncia ad ogni vanità («Strappa da te la vanità, non fu l’uomo / A creare il coraggio, o l’ordine, o la grazia, / Strappa da te la vanità, ti dico strappala») e si tenta l’esperienza autentica delle cose. Apro il libro di Mallarmé che ho recuperato dal suo imo dimentico. Sfoglio a caso. La famosissima poesia «Éventail» (Ventaglio) si apre con tre versi che danno una sorta di raffigurazione del gesto poetico: «Avec comme pour langage/Rien qu’un battement aux cieux/Le futur vers se dégage». Il verso poetico che viene creato, che “si sprigiona” dal dire indistinto, non è nient’altro che un battito ai cieli. Questo il suo puro linguaggio: un niente che è un tutto. Un’impalpabile vibrazione del dire che si propaga nel silenzio umano, lo increspa d’una immagine così lieve, così leggera, da essere fantasmica, imprendibile. Più avanti, dalla lirica «Prose», colgo il verso «Sur maints charmes de paysage», che richiama lo sguardo ai «molti incanti del paesaggio» illuminando la scoperta delle epifanie dietro le cose, al di là dell’esperienza corrente del vivere. In questa complessa composizione, l’autore si protende con tutta la sua arte a tentare di illustrare il senso del suo dire.  Così, implicitamente, chiamo Mallarmé, con il suo sogno di una poesia pura, di un mondo ricreato nel poetico, a testimoniare in difesa di questa piccola roccaforte abbandonata. Non perché questo grande autore sia “la Poesia”. È uno tra tanti approcci – per quanto gigantesco – e forse nella contemporaneità non più proponibile (ne ho parlato in un articolo dedicato a Celan). Lo chiamo a testimoniare, perché in lui la dimensione del poetico è così rimarcata, autonoma. Visibile. È un colorante chimico, che aggiunto alla mistura caotica dei linguaggi, sa evidenziarne le nervature essenziali del dire poetico. Ma gli uomini non sanno che farsene di queste vibrazioni di ventagli al cielo, di queste atmosfere così distaccate dal fare, dal raccontare, dal dialettizzare. Il puro essere è poetico. Ma il puro essere è vuota pienezza, spesso insostenibile. Questo è il peccato originale che relega la lirica ai margini. Montale ce lo insegna: «Non domandarci la formula che mondi possa aprirti». Eppure, la poesia ha proprio l’intento di “aprire il mondo”, ma non ha formule riferibili, non è strutturabile, perché sa che del mondo con chiarezza nulla si può dire. «Le cose coseggiano». La ricorsiva enigmatica espressione heideggeriana mi risuona in mente, mentre mi guardo ancora intorno, nell’antro basilicale della libreria, tra migliaia di testi che tendono a definire quel “coseggiare”, quella sempre sfuggente natura del mondo, la sua indicibilità, la sua sospesa, aperta domanda. E il poetico. Qui, relegato, marginalizzato, quasi scacciato dall’eden del dicibile. Esso che è – forse – l’unico sentiero (certo oscuro, certo privo di certezze) proteso al cuore vivo di questa ineffabilità.


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