Maristella Diotaiuti .come cosa viva
Foto di Elio Scarciglia

Maristella Diotaiuti .come cosa viva

diEmanuela Dalla Libera

C’è una voce viva che parla in questa silloge poetica di Maristella Diotaiuti ed è voce potente che si snoda attraverso testi che sono frutto di un lungo periodo di vita e di scrittura in cui il sentire si dispiega nelle anse dei giorni, dei luoghi e delle relazioni, versi che fanno supporre presenze nascoste dietro le parole, figure a cui sono indirizzati, in un sentire forte, doloroso, a tratti nostalgico degli affetti familiari, di un “antico linguaggio”, del mare col suo “lontano fragore”, della madre, della terra di appartenenza, da cui “giunge odore di erba di mela di cedri e di inferriate”. È voce di cosa, come la stessa poetessa dichiara, cosa ovvero res, cioè realtà che si muove nel mondo e ha uguale dignità negli esseri animali, vegetali, minerali. Tutto è cosa e tutto è reale, tutto partecipa del mondo in cui confluisce l’esistenza di ognuno, esistenza che soggiace al caso, alle dure leggi del destino e delle esperienze, ad esso connesse, di “un’anima sospesa, inerme contro fragili barriere”. Sono testi che del vissuto portano il segno, perché quanto accaduto entra a far parte della sostanza dell’anima e del corpo e lì rimane, fino a lacerare “un silenzio maldestro impigliato nei capelli”, ed evolvendo insieme a noi determina il nostro sentire, il nostro decidere, diffidare, restare o partire. Mai cancellandosi. È una scrittura intima e precisa questa di Maristella Diotaiuti, la parola si carica dell’urgenza di dire quello che nel quotidiano non è dicibile, o non lo è stato, perché il tempo ha travolto gesti e sensi, ma ha lasciato tracce che la scrittura si propone di recuperare facendo incursione in quelle aree che restano solitamente nascoste, per pudore o per dolore, o perché non ancora chiaramente visitate. Eppure è una scrittura composta, le parole sorvegliate, i rimandi ai luoghi, alle persone sono misurati, deposti in un’aura di dignitosa sofferenza del vivere. Ma non è per questo un libro rassicurante, perché la necessità di sopravvivere a se stessi è affidata alla parola poetica che si fa musa della vita, musa di una realtà fatta di piccole cose che l’arte della scrittura ingigantisce rendendole ineluttabili e necessarie. È come se, sotto l’assedio dell’esistenza che martirizza a volte senza senso e senza ragione, l’io lirico esplodesse, dacché “tutto si rompe”, e si ricomponesse nella pagina, nei versi, nelle parole che sole sopravvivono e arginano perché illuminano ciò che era oscuro e illuminandolo lo pacificano facendoci diventare cosa viva, realtà consapevole e in moto verso altro da ciò che ci era stato finora dato. La poesia è anche questo, è il varco che porta oltre, altrove, col bagaglio dei mondi vissuti, senza rinnegarli ma dotandoli di una compiutezza diversa, di un bozzolo in cui penetrare solo per un atto di volontà, maturo e disincantato. Essere cosa viva (sintagma che suona quasi contraddittorio ma che proprio in virtù di questa sua aporia nega con forza la reificazione di cui si diviene facilmente oggetto) riporta quindi al vero senso dell’esistenza, alla necessità di determinare e determinarci, disincagliandoci dalle reti che assediano i nostri giorni, muovendo in essi i nostri passi con la sicurezza acquisita nel tempo dell’esperienza e del dolore. Ma poiché il rapporto col mondo è complesso e inesauribile nella sua comprensione, la parola poetica necessita a volte di rimandi ad altro rispetto a quello che riesce ad esprimere. Maristella Diotaiuti è ben consapevole di questo, sa che altri strumenti possono amplificare l’incisività di un verso, di un’immagine, di un suono. Da qui nasce un uso e un ricorso insolito alla punteggiatura. È forse questo artificio a colpire di più quando si sfoglia per la prima volta questa silloge. Punti fermi all’inizio dei testi, punti fermi tra le parole col risultato di frantumare il discorso, renderlo simile al frammento di un antico poeta greco e della poesia greca antica dargli il fascino di ciò che si immagina oltre, che è sconosciuto e si vuole andare a cercare, per capire, per sorprenderci compiutamente di una bellezza che è comunque già compiuta. Punti fermi a sottolineare la precisione tagliente della parola poetica, la sua capacità di incidere solchi nella mente di chi legge. Al di qua/là del punto la poetessa lascia supporre qualcosa che è ancora embrione, forma imperfetta o incompiuta che ancora non si sa o non si vuole dire e che apre possibilità infinite di scoperta e di stupore, perché cariche di una vitalità che deve emergere oltre la parola, sola entità costituente la mano del poeta, suo unico strumento a forgiare la realtà tutta, duttile, eterno, universale strumento a rappresentare il mondo intero e il nostro essere nel mondo, e caricarlo di tutto ciò che è umano, tutto, senza infingimenti, esclusioni o sottrazioni. Una provocazione forse? Il pensiero va a una forma di sperimentazione, una disgregazione del linguaggio che rimanda ad altre forme poetiche del novecento, innovative e forti, proprie del Gruppo ’63, per esempio, di poeti come Pagliarani, Sanguineti, Balestrini, Porta. Una strategia che diventa anche una dichiarazione di poetica, perché il poeta è mediatore tra la realtà e il sentimento della realtà. Perché i poeti sono “i figli più belli del mondo” e “sanno. che la verità. è chiara e tortuosa”, ma “non temono la notte. e l’inganno”. E alla verità arrivano, attraverso percorsi complessi, indicibili ripensamenti, caparbi convincimenti per “tenere in pugno così assoluta quella fermezza”. Sia pure “in figura di naufraghi”, trasformando le cose, rendendole vive e piene di senso.   

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