La foglia caduta del cielo di Antonio Bux
Stefano Negri, India

La foglia caduta del cielo di Antonio Bux

diEmanuela Dalla Libera

Nella copiosa produzione poetica di Antonio Bux, la raccolta La foglia caduta del cielo figura come la più recente pubblicazione. È una silloge in cui il poeta rappresenta la sua percezione del mondo in poesie a tutta pagina, senza titolo, né altra indicazione che rimandi ad una specificità di contenuto, come se il parlare poetico si estendesse a ogni cosa e la parola si dilatasse in ogni dove senza argini né confini, a riempire la vita tutta e con essa ogni angolo di tempo. È un poetare intenso e denso, fatto di un linguaggio che si muove libero, ignorando, o volutamente disattendendo, qualsiasi ordinario legame sintattico, qualsiasi codificata trama di pensiero, fino a dare l’impressione di un disordine costruttivo, di una forza in perenne movimento e mutamento, quasi un lievito che fermenta e sussulta, o suggerire lo stesso caos da cui ha origine il mondo, per riportarlo all’ordine, ad un cosmos che la poesia insegue per fare breccia e depositarsi nell’animo di chi legge. Sono poesie caratterizzate da un fluire rapido e inarrestabile, intervallato da rari punti, a volte del tutto assenti, e da ancora più rare virgole, in cui il poeta assembla parole che sembrano sconnesse l’una dall’altra, quasi tasti da suonare singolarmente per comporre però un’unica musica, a costruire il discorso poetico in un respiro unico per dire il tutto e poi fermarsi quasi improvviso e lasciare al lettore una sorta di stordimento, un’aura risuonante in cui captare un’unità che è insieme pensiero, sentimento, emozione. Se una cifra si vuole cercare in questa poesia, forse la si può trovare allora nell’estrema duttilità con cui Bux manipola la sintassi modellando frasi in cui le parole risultano giustapposte, fuori di qualsiasi schema canonico, quasi facendole stridere per farvi uscire la vita e con la vita le cose e il loro presentarsi immediato. Come la lingua si nutre di una sintassi surreale, così di immagini surreali si nutrono le cose, veicolo di pensiero o semplice rappresentazione dell’esistente. Colpiscono allora le ore murate sull’orologio, o il veder male il sentiero invisibile, o ancora tu che diventavi Berlino, in un sovrapporsi di luoghi e persone che diventano un’unica entità. E ancora potentemente surreale è l’immagine degli alberi con la radice alla gola, alberi solo immaginati con le radici alte più alte del mondo, immagine che potrebbe rimandare a una certa pittura, di Dalì per esempio, e finisce per dare vita a una poesia dal ritmo circolare in cui l’uomo sogna e il sogno vede in sé un uomo sveglio da sempre, per tornare all’albero che riporta i suoi rami forse nella carezza dell’uomo che sogna, creando in tal modo una triade che ruota su se stessa in un equilibrio che disarciona qualsiasi pretesa di pensiero lineare. E in questo spazio poetico disarcionato, la realtà ne viene capovolta, l’ombra ti guarda, e la luna corre all’indietro a recuperare un tempo perduto in cui hai sempre tre anni, e tu e la luna in un sorriso annientavate il male che oggi sorride al tuo fianco, perché la luna è alta, ha ancora spazio da darti. E in questa poesia che è quasi allucinato specchio della realtà, Bux trova spazi di religiosità nel porsi in relazione con se stesso e gli altri, con le cose e col mondo fino a Dio, e sei caverna mio Signore che tu mi vedi se io mi genufletto in te è un cuore solo, in un dialogo che rimanda alla necessità di sapere, di capire e di capirsi, in un vibrare cieco l’occhio che ritorna vista, immaginando un uomo…con una pala in mano, e nell’altra una poesia mai nata…così nei campi stellati l’uomo avrebbe un dio con cui parlare, direbbe io.

È in questo poetare che Bux cristallizza nelle parole il mondo, se stesso e la memoria, perché, dice, c’è un’antica preghiera che il corpo recita, è una parola e non vuole essere detta, ma si sente a volte avvicinare il suono misterioso dentro, e questo viso impara presto la mutazione.

Chissà. Forse è l’impellenza stessa della poesia a tracimare, e, come ebbe a dire Alda Merini, il poeta deve parlare, deve prendere questa materia incandescente che è la vita di tutti i giorni, e farne oro colato, non sottraendosi al recupero di ciò che è stato, perché, dice ancora Bux nei suoi versi, mi sei risorta in uno specchio d’estate, per trovare, sia pure nello specchio rovesciato che siamo, io e te la verità.



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